La biodisponibilità dei nutrienti
La cottura "rovina" molte proteine e carboidrati, facilita invece l'assimilazione di alcuni nutrimenti e spesso non basta, occorre sempre masticare bene….
Periodicamente il mondo delle diete è attraversato dalla moda del momento. Diete iperproteiche, diete low carb, diete a base di ananas o di aloe, detox, del paleolitico e così via. Consigliate dalle pagine di libri di successo e riviste a grande diffusione dedicate alla salute e al benessere, hanno però spesso scarso supporto scientifico. Negli ultimi tempi stanno prendendo piede piede sempre di più la dieta vegetariana e la dieta vegana ed inoltre la cosiddetta dieta (o meglio “regime alimentare”)crudista. L’idea di base è che la cottura danneggi irrimediabilmente le sostanze nutritive contenute negli alimenti, che andrebbero quindi sempre assunti crudi.
È vero, per esempio, che molte vitamine si degradano con il calore, ma è sbagliato generalizzare.
Altri nutrienti, come carboidrati e proteine, non sono danneggiati dalla cottura e possono essere digeriti più facilmente. Ci sono poi dei casi in cui la cottura addirittura aumenta la quantità di sostanze utili assorbibili dal nostro corpo, come vedremo.
Nutrienti segregati
L’immagine di una persona che sgranocchia una carota cruda è spesso presa a simbolo di una alimentazione “salutista”. Ironicamente però vari esperimenti hanno dimostrato come questo sia il modo peggiore di assumere il beta-carotene contenuto.
Le cellule vegetali, a differenza di quelle animali, sono protette da una parete cellulare costituita da vari polisaccaridi: principalmente cellulosa -un materiale che il corpo umano non è in grado di metabolizzare- emicellulosa e pectina. Sono poi circondate da una membrana cellulare. Infine i nutrienti sono spesso localizzati in alcuni compartimenti specifici all’interno della cellula, o legati ad alcuni elementi strutturali come proteine e membrane. Insomma, sono “sepolti” in profondità e questo può influire enormemente sulla loro accessibilità. Le cellule quindi devono venire danneggiate meccanicamente, chimicamente, o mediante il calore per poter permettere al nostro corpo di assorbire i vari nutrienti. L’azione meccanica, come quando prepariamo un passato di verdura frullando tutto, danneggia le pareti di cellulosa mentre riscaldando avviene la degradazione chimica della pectina e i tessuti si ammorbidiscono.
Disponibilità
Quando leggiamo la tabella nutrizionale di un alimento con il relativo contenuto di ferro, vitamina C o beta-carotene, non significa che il nostro corpo, mangiando quell’alimento, riesca effettivamente sempre ad assorbire quelle sostanze.
Si definisce la bioaccessibilità di un nutriente la quantità disponibile per l’assorbimento intestinale dopo il rilascio dall’alimento. Questo parametro è ben più importante del semplice contenuto di un nutriente, perché misura la quantità che è effettivamente disponibile nell’intestino per essere assorbito e che quindi può dare benefici al nostro corpo. Non necessariamente una attività antiossidante di una sostanza, ad esempio, nel nostro corpo proviene dal vegetale che ne ha una concentrazione maggiore, se questa è poco bioaccessibile.
La bioaccessibilità è il punto di partenza per indagare la biodisponibilità: la frazione di nutriente di ingerito disponibile per essere utilizzato dalle normali funzioni fisiologiche o per essere immagazzinata dal nostro corpo. In altre parole, il nutriente è lì, pronto per essere assorbito e utilizzato dal nostro corpo. Ma non sempre ci sono le condizioni adatte per farlo: ad esempio dipende da cos’altro sto mangiando in quel momento, quante fibre, quanti grassi ecc.
Queste misure non sono semplici da effettuare. In vivo si può misurare la concentrazione nel plasma dopo che una certa dose di nutriente è stata assunta da dei volontari, oppure prelevare direttamente dall’intestino del materiale organico e analizzarlo, o usare altri metodi. In vitro invece si cerca di simulare i processi digestivi e il successivo assorbimento utilizzando acidi, enzimi e colture cellulari appropriate.
Carotenoidi
Il beta-carotene, e i carotenoidi in genere, sono i responsabili della colorazione arancione di vegetali come carote o papaya, ma sono presenti anche in altri vegetali, come gli spinaci, coperti dal verde della clorofilla. Il beta-carotene è un nutriente prezioso per il nostro corpo: è un precursore della vitamina A -per questo motivo viene anche chiamato provitamina A- e ha un potere antiossidante che pare essere coinvolto nella protezione da alcune disfunzioni e malattie.
Il carotene nelle carote è localizzato in forma cristallina nei cromoplasti (organuli delle cellule circondati da una doppia membrana dove si accumulano i pigmenti). Insomma i caroteni sono “sepolti” in profondità nelle cellule delle carote e di altri alimenti che li contengono e quindi devono prima essere resi accessibili, rompendo le varie barriere, a partire dalla parete cellulare esterna di cellulosa e pectina, prima che nel nostro intestino possano venire assorbiti.
Trattamento termico
I trattamenti termici e meccanici possono danneggiare le membrane, la parete cellulare, e denaturare le proteine, aumentando quindi l’estraibilità dei carotenoidi. Vari autori hanno studiato questo effetto, e le conclusioni sono che più il tessuto delle carote viene danneggiato meccanicamente e rammollito dalla cottura e più il beta-carotenee gli altri carotenoidi sono bioaccessibili. Nei primi minuti di cottura avviene la rottura della membrana e la cellula perde di turgore. Successivamente inizia la degradazione della pectina (alcuni trattamenti, come l’uso di calcio o sbianchitura, possono mantenere più a lungo il turgore dei vegetali, ma ne parleremo un’altra volta).
Uno studio in vitro con un metodo che simula la digestione [Hedrén 2002] ha stimato nel 3 per cento la percentuale di beta-carotene bioaccessibile in pezzi di carota cruda. Riducendo le carote in polpa omogeneizzata la percentuale sale al 21 per cento e cuocendola si sale al 27 per cento.
È importante notare anche come cottura e trattamento meccanico siano importanti entrambi: se cuociamo dei pezzi di carota senza sminuzzarli la percentuale stimata di beta-carotene accessibile è solo del 6 per cento, anche se è il doppio del valore trovato per la carota cruda a pezzi. Un dato simile trova Lemmens [Lemmens 2009]: un aumento da due a sei volte. Il trattamento meccanico può avvenire prima della cottura oppure dopo ma è fondamentale perché la rottura della parete cellulare è un prerequisito per il successivo rilascio del beta-carotene. Ecco perché masticare bene il cibo per sminuzzarlo è molto importante. Gli studi in vivo sono più rari perché più complicati, ma uno studio del 1998 [Rock 1998] ha trovato un aumento di beta-carotene nel plasma di alcune donne di tre volte rispetto al consumo di carote crude. Uno studio [Livny 2003] in pazienti con una ileostomia trova dei risutati analoghi.
Negli ultimi anni molte altre ricerche hanno cercato di misurare quanti carotenoidi, di quelli presenti, vengono effettivamente assorbiti dal nostro corpo. Le misure sono difficili da effettuare ed esperimenti diversi portano a risultati numerici diversi, ma in tutti i casi viene confermato che il modo migliore di assumere i carotenoidi delle carote è di sminuzzarle, cuocerle e mangiarci insieme dei grassi.
Temperature e distruzione
Ma le alte temperature non danneggiano il beta-carotene? Sì certo. In particolare una parte viene trasformata in una molecola meno utile (per i chimici: un isomero cis. La lunga catena di 11 doppi legami coniugati e un anello alla fine delle due catene lo rendono particolarmente suscettibile di isomerizzazione e ossidazione). L’isomero cis ha una ridotta capacità di trasformarsi in vitamina A e una capacità antiossidante minore. Ma il bilancio globale è sempre a favore della cottura perché molto piè beta-carotene diventa accessibile al nostro corpo.
Olio e pummarola
Rendere bioaccessibile un nutriente, attraverso la distruzione delle pareti e membrane o il distacco da proteine o altre molecole a cui sono legati è solo il primo passo. Il processo di assorbimento intestinale, la biodisponibilità, può venire influenzato da vari fattori, come la presenza o meno di fibre o di grassi.
Tutti i carotenoidi sono molecole che si sciolgono nei grassi (lipofile) e non nell’acqua, e per venire assorbite dalla mucosa del duodeno devono essere incorporate in micelle, insieme a trigliceridi, fosfolipidi, acidi biliari e colesterolo, e la presenza, nel pasto, di grassi è un elemento molto importante. Tuttavia non serve esagerare: già una piccola quantità come 5 grammi di olio è sufficiente per garantire un adeguato assorbimento di carotenoidi durante un pasto a base di carote cotte. Nello studio in vitro citato sopra aggiungendo olio la percentuale di beta-carotene disponibile sale sino al 45 per cento.
La prossima volta illustreremo un semplice esperimento per mostrare la preferenza dei carotenoidi verso i grassi.
Le carote non sono gli unici ortaggi a manifestare questo comportamento. Il bel colore rosso dei pomodori è dovuto al licopene: anche lui una molecola della famiglia dei carotenoidi. Ha un buon potere antiossidante e si pensa che abbia delle funzioni protettive nei confronti di alcuni tipi di tumore. Consumare pomodori quindi è consigliato, tuttavia alcuni esperimenti eseguiti su volontari mostrano come la biodisponibilità del licopene nei pomodori freschi o nel succo di pomodoro sia, a parità di licopene contenuto, due o tre volte più bassa rispetto ad una salsa o a un concentrato di pomodoro, dove la cottura ha liberato molto più licopene racchiuso nelle cellule. Anche grazie al ridotto contenuto di acqua il concentrato di pomodoro in tubetto può contenere fino a 20 volte più licopene disponibile, a parità di peso, rispetto ai pomodori freschi.